lunedì 23 dicembre 2013

Quanto conta l’aspetto fisico per trovare lavoro?

Quanto conta l’aspetto fisico per trovare lavoro?
Presentarsi a un colloquio è come partecipare a un concorso di bellezza? Ecco una ricerca e il parere di un autorevole direttore del personale.


Altezza, peso, giro vita e colore di capelli. Non siamo a un casting per modelle, ma a un banale colloquio di lavoro. Funziona davvero così? A quanto pare sì, leggendo i dati di un gruppo di ricercatori dell’Università di Messina, che hanno studiato l’impatto della bellezza fisica sull’occupabilità delle persone, prendendo in esame la prima fase del processo di assunzione. Secondo loro la bellezza fisica dei candidati influisce sull’esito del colloquio di lavoro, o meglio, gli aspiranti nuovi assunti che appaiono più attraenti in foto hanno più chance di essere convocati per un colloquio. Abbiamo chiesto un parere al vice presidente nazionale di Aidp, l‘Associazione Italiana Direttori del Personale, Paolo Iacci. Ecco cosa ci ha raccontato.
 
La ricerca – L’esperimento dei ricercatori dell’università di Messina si basava sull’invio di 11mila falsi curricula in risposta a oltre 1500 annunci di lavoro pubblicati nel Paese tra l’agosto 2011 e il settembre 2012. Ogni curriculum era accompagnato da una fotografia spesso ritoccata graficamente in modo da rispecchiare o meno gli attuali canoni estetici della bellezza femminile, ma tutti riportavano le stesse qualifiche. Così i ricercatori, una volta spedite le proprie false referenze, hanno aspettato la tanto agognata telefonata per un colloquio conoscitivo.
 
Risultati – Ne è emerso che i responsabili della selezione del personale sono maggiormente portati a contattare i candidati che appaiono attraenti, soprattutto se di sesso femminile, accantonando inconsapevolmente i curricula dei colleghi meno piacenti. Tra le donne meno belle, infatti, solo il 7% hanno l’opportunità di essere chiamata a un colloquio, rispetto alle più carine, chiamate nel 54% dei casi.
 
L’esperto - Paolo Iacci, vice presidente nazionale di Aidp, l‘Associazione Italiana Direttori del Personal, non è d’accordo sulla ricerca secondo cui l’apparire sembra essere sempre più importante dell’essere, soprattutto quando si tratta di sostenere un semplice colloquio di lavoro. Il curriculum, secondo lui, ha ancora un certo peso.
 
“Ovviamente – dice – un buon processo di selezione ha come finalità il trovare la persona giusta, al posto giusto. In questo senso, le caratteristiche fisiche devono essere prese in considerazione solo se funzionali allo svolgimento del compito. La bellezza dovrebbe quindi essere un elemento discriminante solo per quelle selezioni, rare, dove effettivamente questa caratteristica è elemento chiave per un buon svolgimento della posizione di lavoro. Pensiamo, per esempio, a personale di contatto, persone immagine e poco altro”.
 
Inconsapevolmente – Nella realtà, invece, talvolta accade che chi seleziona sia attratto, magari anche inconsapevolmente,  da una persona di aspetto piacevole e che questa caratteristica abbia un effetto positivo anche sull’esito della selezione stessa: “Ricordo – continua l’esperto – un’analoga ricerca pubblicata alcuni anni fa sul mensile Campus riguardo l’influenza della bellezza sulla valutazione degli esami all’università Bocconi di Milano. Risultava che le ragazze, ma anche i ragazzi, di aspetto più gradevole ottenevano mediamente voti migliori. Inutile dire quanto questo fenomeno sia sbagliato: dobbiamo trovare dei correttivi nel rendere quanto più possibile oggettivo il processo di selezione”.






Ai colloqui di lavoro l'aspetto conta. Parola di scienziato
Uno studio americano spiega perchè l'aspetto, anche fisico, può fare la differenza a un colloquio di lavoro.
di: Franco Severo

La faccia conta. Almeno ai colloqui di lavoro (foto © Rice University)
Quanto conta l'aspetto fisico durante un colloquio di lavoro? Il buon senso, e la legge, dicono che non dovrebbe essere un elemento di discriminazione, ma la realtà è ben diversa.
Un sofisticato studio da poco pubblicato sul prestigioso Journal of Applied Psychology afferma che i candidati con imperfezioni del viso evidenti come cicatrici, grossi nei o vistose macchie sulla pelle, sono piuttosto svantaggiati nei processi di selezione del personale. Il motivo? È piuttosto banale: secondo gli scienziati gli intervistatori sarebbero distratti dai difetti epidermici e non ascolterebbero con la dovuta attenzione ciò viene detto loro dall'aspirante lavoratore. 

Ma che faccia c'hai?
La sconcertante tesi è stata dimostrata da Mikki Hebl e Juan Madera, psicologi presso l'Università di Houston. I due ricercatori hanno chiesto a 171 studenti di effettuare dei colloqui di selezione ad alcuni candidati per un ipotetico posto di lavoro.
Le interviste sono state effettuate al PC con un sistema di videoconferenza, mentre una speciale telecamera controllava i movimenti degli occhi dei volontari registrando secondo per secondo dove si posava il loro sguardo. Alla fine dei colloqui è stato chiesto agli intervistatori di spiegare cosa ricordavano dei diversi candidati. 
«Solitamente, quando si parla con una persona si è attratti dal triangolo occhi-bocca», spiega Madera, «nel nostro esperimento abbiamo constato che più l'attenzione si spostava verso altre zone del viso, meno gli studenti erano in grado di ricordare ciò che aveva detto il candidato». 

Se l'abito fa il monaco
La seconda parte dell'esperimento ha coinvolto 38 manager, abituati a condurre colloqui di selezione per le loro aziende, e alcuni ipotetici candidati con evidenti segni sulla pelle del volto. I 38 dirigenti hanno condotto le interviste dal vivo, ma nonostante la loro età ed esperienza hanno avuto non pochi problemi a gestire l'imperfezione fisica degli aspiranti collaboratori. 
Hebl e Madera sperano che il loro lavoro permetta alle aziende di prendere coscienza di questa pesante forma di discriminazione che viene inconsapevolmente praticata dal personale addetto alla selezione. 
«Gli studi che dimostrano come particolari gruppi di persone siano svantaggiati nella ricerca di un lavoro sono tanti» spiega Hebl, «ma il nostro lavoro è il primo a far luce sul perchè questo succede».

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